Mon Sujet m’entraînant malgré moi

Giovanni Incorvati

Sofia, Emilio, o il diritto di scegliere il proprio paese

Résumé en français

Mon sujet m’entraînant malgré moi…

Sophie, Émile, ou le droit de choisir son propre pays

(Introduction au colloque La subversion des sujets. Jean-Jacques Rousseau 300 ans après, Rome, Biblioteca Nazionale, 7 octobre 2011

Le cinquième livre de l’Emile constitue une sorte de pont jeté vers le Contrat Social. Le processus éducatif d’Emile se termine lorsqu’il rencontre Sophie. La perspective d’un ménage conforme à la «nature» de chacun des sexes ouvre à la femme un futur de contrainte et de gêne. Par ailleurs, le désir des deux amants de former une famille de leur choix va se heurter à l’ordre politique existant. Leur projet doit se confronter aux états confessionnels qui dominent l’Europe, où l’hypothèse d’un mariage civil présupposerait des changements substantiels, tout d’abord une suppression des rapports inégalitaires, ainsi qu’une transformation de la notion de sujet.

Peu avant, au cours de la Profession du vicaire savoyard, Rousseau avait développé une critique, y compris terminologique, de la notion unitaire de sujet qui s’était affirmée très prudemment à partir de de Descartes. Une notion unitaire mais sans utiliser un terme unitaire. En effet, Descartes et ses successeurs, en se référant au sujet de la connaissance, avaient soigneusement évité d’utiliser le substantif «sujet» qui aurait pu avoir des implications politiques dangereuses.

En revanche, dans le Contrat social ou principes du droit politique, «sujet» a deux significations politiques opposées. D’une part, suivant le sens courant dans les sociétés d’ancien régime, il désigne une personne sans droits politiques, assujettie au souverain. D’autre part, en tant que référé à la cité du contrat social, il désigne les sujets investis de certains droits politiques. Ils ne sont ni sujets du souverain,

-fût-il formé du peuple (le «demos»)-, ni assujettis à eux-mêmes en tant que citoyens, mais ils sont soumis uniquement à la loi, dans la mesure où celle-ci est l’expression de la volonté générale et la source de tout droit politique. Le «contrat substitue une égalité morale et légitime à ce que la nature avait pu mettre d’inégalité physique entre les hommes», et l’inégalité entre hommes et femmes se transforme donc en égalité de tous les «sujets» dans leurs droits.

Pour essayer de situer et d’éviter les dissonances qui s’annoncent dans ses rapports avec Sophie, Emile se mettra en route à travers l’Europe, les principes du droit politique dans la poche. Il cherchera un pays qui les reconnaisse , et qui puisse accueillir, comme un couple légitimé à former une nouvelle famille, lui et Sophie, en leur assurant un rapport paritaire, et en les protégeant des vexations de toutes sortes. Cette recherche va même au-delà, puisqu’elle implique non seulement la possibilité pour chacun de choisir sa propre résidence dans tel ou tel pays, mais également d’y jouir aussi des droits politiques. En plus du droit de citoyenneté, ils devront avoir, comme «sujets» les droits électoraux actifs et passifs, par lesquels ils pourront, entre autres choses, poser leur candidature comme participer au choix des candidats.

Pourtant les innovations politiques introduites par Rousseau par le biais de termes à double sens qui devaient lui permettre d’esquiver les possibles accusations de lèse-majesté, n’ont pas été perçues par les traducteurs du Contrat social en d’autres langues, par exemple en italien. Ils ont ignoré non seulement les deux manières de rendre le mot «sujet», mais aussi tout rapport avec les deux significations du substantif «voix» dans le traité. En éliminant les voix par lesquelles les sujets expriment leur discours politique, et donc en se débarrassant des sujets mêmes, on fait du «droit politique» un simulacre qui cache l’abolition des droits politiques. Rarement la tâche du traducteur a pu apparaître aussi profondément politique que dans les oeuvres de Rousseau. Et après deux siècles et demi elle pourrait ne pas avoir cessé de produire ses effets.

_____________________________________________________

Inizialmente questo convegno doveva mettere in correlazione la duplice ricorrenza di Rousseau (1712, la nascita; 1762, la pubblicazione dell’Emilio e del Contratto sociale) con quella dell’unità politica italiana, e dunque con l’insieme dei rapporti che legano il Ginevrino all’Italia e alla sua cultura. Si era pensato di dedicare una sessione alla musica, in particolare all’anniversario della scrittura del soggetto del Pygmalion (1762). Visto che non è stato possibile attuare un simile progetto nella sua interezza, riepilogherò brevemente le prime traduzioni italiane di Rousseau nel secolo XVIII, che hanno tutte qualche rapporto col tema dei soggetti e della soggettività.

Le uniche opere tradotte integralmente furono lo stesso Pygmalion, in un numero ancora imprecisato di versioni (almeno una decina, a partire dal 1773, il Contrat social (tre versioni dal 1796) e il Discours sur l’origine de l’inégalité (due versioni del 1797). Frammenti della Nouvelle Héloïse apparvero fin dal 1762 (lettera 10 della parte IV), delle Rêveries (5. e 7. Promenade) nel 1789 e dell’Emile (i primi quattro libri, non completi) nel 1797.

Le traduzioni italiane e la questione dei soggetti

Nella lettera di Saint-Preux della Nouvelle Héloïse vengono descritti gli innovativi rapporti di lavoro, fondati su incentivi, che Wolmar, padrone con sua moglie Julie della tenuta agricola di Clarens, sul lago di Ginevra, vi ha introdotto, e anche i rapporti dei padroni con i domestici. Quanti chiedono di essere assunti vengono messi alla prova e se mal sopportano « la costrizione (contrainte) e la soggezione (gêne) » vengono licenziati (Oeuvres complètes, Pléiade, v. II, 453). Al di fuori di questi casi, a Clarens regna un’aria di naturale indipendenza, una soggettività puramente fisica, simboleggiata da una voliera « libera » che campeggia nel parco padronale, da cui gli uccelli possono evadere, ma a cui ritornano puntualmente al momento del pasto. A Clarens, come nel resto del Vaud, sottolinea Rousseau (I, 62; OC, v. II, 170 e n.), la condizione di tutti, Julie compresa, è quella politica di « sudditi » (sujets) – specchio di quella economica dei « buoni soggetti » (sujets) in posizione subordinata – e non di cittadini o di soggetti di una repubblica libera.

Più che in qualsiasi altro paese, il Pygmalion in Italia sembra aver esercitato un’influenza notevole. E non tanto, come avverrà per tanti musicisti successivi, per la sua forma sperimentale, prototipo del melologo, quanto per la funzione simbolica del soggetto, quasi introduttiva alle tematiche delle altre opere maggiori. La statua di Galatea si anima per effetto non dello scalpello del suo scultore Pigmalione (a cui è rimasta soggetta) e nemmeno perché è l’oggetto delle attenzioni e delle invocazioni di costui, ma per il potere della musica, o meglio, del soggetto, musicale e non, di parlare, di penetrare autonomamente e di trovare rispondenza all’interno di Galatea stessa. E quel preciso momento in cui la musica si spegne del tutto segna uno scambio di ruoli: è la musica che si mette all’ascolto di Galatea, del suo passaggio a una soggettività autonoma. In quel punto lei scende dal piedistallo e si confronta, vuole confrontarsi col mondo esterno: se tocca un marmo, lo riconosce ormai a voce alta come altro da sé, un passato da cui è aliena; ma quando fa lo stesso col suo scultore, questa volta si identifica espressivamente con lui. Michael Steinberg, che ha rinvenuto qui, in Rousseau, il passaggio storico dalla musica barocca a quella contemporanea, lo mette in parallelo con la metamorfosi del suddito d’ancien régime nel soggetto politico moderno. Se ?aikovskij nel 1878, nel centenario della morte di Rousseau e al culmine della propria crisi coniugale, andrà a Clarens per comporre alcuni dei suoi più famosi capolavori, nel 1912 sarà Stravinskij, in occasione del bicentenario della nascita del Ginevrino, a invitare Schönberg in quella stessa pensione di Clarens per discutere del Pierrot lunaire, che il musicista austriaco aveva appena composto, quasi un omaggio per l’autore del Pygmalion, nel suo doppio anniversario.

La prima traduzione in assoluto delle Rêveriesdu promeneur solitaire avvennein Italia, anche se in modo parziale, per opera del celebre naturalista Domenico Cirillo, all’interno dei suoi Discorsi accademici, pubblicati nel 1789, sotto i titoli rispettivamente di « Passeggiata quinta di J.J. Oper. Post. » e di « Settima passeggiata di J.J. Oper. Post. » Si tratta di una splendida traduzione, forse la migliore che abbiamo nella nostra lingua di uno scritto di Rousseau. E’ la rivelazione di una profonda affinità tra due studiosi che, nello stesso periodo, dall’inizio degli anni ’60 alla metà del decennio successivo, avevano condotto controcorrente, entrambi sotto il segno di Linneo, le proprie ricerche di botanica. Cirillo si identifica col promeneur solitaire, al punto che noti storici sono stati vittime di qualche abbaglio, prendendo le passeggiate descritte dal Ginevrino per esperienze originali di Cirillo. Il quale nel suo commento distingue in esse tre diversi aspetti, con una gradazione crescente della soggettività: il primo è rinvenibile nello stato di isolamento del filosofo che tende solo all’ozio e all’ignoranza; il secondo nell’autocommiserazione di chi soffre ingiustamente, nella sua identificazione dolente con le sofferenze altrui; il terzo nelle meditazioni istruttive e dilettevoli del botanico. Questi discorsi così poco accademici furono pubblicati in contemporanea con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Essi saranno ristampati dieci anni dopo, sempre a Napoli, all’epoca della Repubblica Partenopea, della cui assemblea legislativa Cirillo era presidente, quando la riflessione sulla soggettività nella scienza incontrerà, russoianamente, quella sulla soggettività politica. Incontro sintetizzato nelle parole che Cirillo pronunciò sul patibolo: « Cittadini, ho vissuto per aiutarvi, muoio per aver voluto difendere i vostri diritti ».

Il soggetto dell’Emilio e del Contratto

Quella di Cirillo può apparire come un’esperienza eccezionale, al di fuori della norma. Nell’ultima fase del decennio rivoluzionario 1789-1799 il soggetto solitario di Rousseau è proiettato, e inizialmente sembra quasi assorbito completamente, all’interno di un processo che esalta l’aspetto politico collettivo, a scapito della componente individuale, ritenuta pre-politica, passiva, legata a doppi fili al sujet d’ancien régime, al suddito. Le prime traduzioni politiche di Rousseau risalgono al 1796: a Venezia si decide di pubblicare una Biblioteca dell’uomo repubblicano, i cui due primi volumi dovevano essere dedicati rispettivamente al Discorso sulla disuguaglianza e al Contratto sociale. Ma in corso d’opera ci si accorge della rilevanza della questione del soggetto, della sua funzione di trait d’union tra queste due opere. Il secondo volume della Biblioteca sarà allora riservato alla prima traduzione italiana dell’Emilio, ma solo i primi quattro libri fino alla « Professione di fede del vicario savoiardo » compresa, a cui sarà affidato il compito di assicurare tale funzione. Il terzo volume dovrà contenere il quinto e ultimo libro dell’Emilio, che termina col riassunto del Contratto sociale, e infine la traduzione integrale del Contratto sociale stesso. Il primo e il secondo volume della Biblioteca vengono pubblicati, rispettando tale piano, nel 1797, ma con molta circospezione sul nome dell’autore, che né nell’uno né nell’altro caso figura accanto al titolo. Da qui deriva l’idea diffusa che l’Emile non sia stato tradotto in italiano prima della fine del secolo XIX. Tuttavia la Biblioteca dell’uomo repubblicano si arresterà qui e rimarrà monca del terzo volume come dei successivi. Perché? La giustificazione dell’editore era che nel frattempo stava uscendo a Parigi la prima traduzione italiana del Contrat social. In realtà mettere in fila la conclusione dell’Emile con l’inizio del Contrat, benché fosse l’operazione più naturale dal punto di vista dell’ordine cronologico, sotto il profilo concettuale ed editoriale appariva troppo innovativa.

Il problema dell’unità del quinto libro dell’Emile costituisce in effetti un nodo assai emblematico per tutto l’insieme della produzione di Rousseau, e lo prova il fatto che in seguito tale sequenza Discorso sulla disuguaglianza -Emilio – Contratto sociale non è stata più attuata da nessuna altra parte. Bisognerà attendere le celebrazioni del prossimo anno per vedere un editore (Garnier) organizzare per la prima volta le opere di Rousseau secondo un criterio di questo genere (ma non l’ordine della data di pubblicazione, bensì quello della data di scrittura). Proprio l’itinerario che dalla « Professione di fede del vicario savoiardo » conduce alla « Professione di fede nella religione civile », con cui si conclude il Contratto sociale, costituisce una vistosa e singolare lacuna nella storia della critica russoiana. Non è questo il momento né la sede per affrontare una questione di tale portata. Cercherò solo di fissarne alcuni capisaldi attraverso alcuni appunti relativi alla nozione di « soggetto ».

Tema del soggetto e del suddito

Sarà opportuno iniziare con un’analisi lessicale e un breve excursus storico. Se prendiamo i più accreditati vocabolari della lingua italiana alla voce « Soggetto, s.m. », così come Sujet in quelli della lingua francese, Subject per l’inglese, Subjekt per il tedesco, Sujeto per lo spagnolo e Sujeito per il portoghese, notiamo anche qui un vuoto. Un vuoto che si è andato allargando col tempo, e tende a diventare una voragine. Accanto a significati antichi – derivanti, già nel XVI secolo, dal latino subiectum -, come quello di soggetto grammaticale, o quello di « tema, argomento », e accanto a significati più tardi, legati al linguaggio medico, di individuo con sue particolarità fisico-psichiche, i vocabolari registrano spesso anche accezioni specialistiche: un significato definito « filosofico », riferito, a partire almeno dal XVIII secolo, al soggetto della fruizione estetica, e quindi, a partire da Kant, al soggetto morale come a quello conoscente; infine un significato giuridico, riferito al « soggetto di diritto », figura costruita o ricostruita dalla dottrina, a partire da quella tedesca di inizio del XIX secolo, come una sorta di sintesi delle precedenti accezioni. Invece non viene mai riportato un significato ormai corrente da diversi decenni, quello di « soggetto attivo », nozione collegata alla libertà di scelta, e che più tardi, diciamo almeno dal ’68, si è estesa fino al riconoscimento di soggetti collettivi, soggetti collegati a movimenti, soggetti politici. Per il fatto che i « nuovi » soggetti sono ritenuti troppo eterogenei, magmatici, incontenibili in una figura unitaria, si fanno resistenze a registrare questa ulteriore accezione. E tanto meno si riconosce un’altra nozione, che è venuta imponendosi e universalizzandosi in connessione inscindibile con la precedente, quella di soggetto/soggetti di diritti individuali fondamentali o di diritti collettivi .

Se poi passiamo dai semplici vocabolari alle enciclopedie e ai dizionari specialistici, vediamo come essi non facciano che accentuare una simile tendenza. L’Enciclopedia Italiana Treccani, dopo l’articolo di carattere storico, molto citato, di Guido Calogero del 1937, nelle sette successive appendici non ha più dedicato alcuna attenzione alla questione del soggetto/soggetti. I dizionari specialistici di filosofia, dal Lalande all’Historisches Wörterbuch, non sono andati oltre. Quanto a quelli giuridici, quando hanno aperto qualche spiraglio innovativo sulla questione, si sono immediatamente affrettati a richiuderlo. Per esempio, l’Enciclopedia del diritto nel 1962 (voce « Diritto soggettivo » di Widar Cesarini Sforza) riconosceva il ruolo chiave esercitato da Rousseau per il riconoscimento dell’autonomia della persona, mentre pochi anni più tardi Sergio Cotta (voce « Soggetto di diritto ») riaffermava l’immagine del « Rousseau totalitario », negatore di tale autonomia. Ma va subito ricordato che anche l’immagine del « Rousseau liberale » ha sofferto di diverse semplificazioni: è stato rimosso proprio il suo assunto principale, l’aspetto politico della libertà, quello che si concretizza nell’unità di diritti politici individuali e collettivi. Si tratta in questo caso di una rimozione molto più antica di quella riguardante il sostantivo soggetto negli attuali dizionari, in quanto risale alle prime traduzioni del Contrat social nel XVIII secolo. Ma le due rimozioni hanno un significativo punto di incontro proprio nel modo di intendere quel sostantivo « soggetto », sujet in francese, e molto probabilmente sono l’una all’origine dell’altra.

I dizionari francesi alla voce Sujet, come del resto quelli inglesi sotto Subject, rispetto a quelli delle altre lingue prima citate, registrano anche un significato politico più antico, che, nel suo significato letterale, ormai da tempo, soprattutto nell’ultimo scorcio del XX secolo è entrato gradualmente in disuso. Questo significato corrisponde a quello del nostro « suddito », allo spagnolo súbdito, al portoghese súdito, al tedesco Untertan, derivanti dal latino subditus, e indica l’individuo in quanto « soggetto », sujet, a un monarca – una condizione di soggezione che è in contrasto, o dovrebbe esserlo, con quella prevista per i cittadini dopo l’esperienza della Rivoluzione francese.           E infatti il linguaggio legislativo delle costituzioni, a partire da quelle del periodo rivoluzionario, ha rinunciato completamente all’uso di questo termine d’Ancien régime. Il punto di crisi si era manifestato qualche anno prima, nel 1776, al momento della redazione della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti, quando Jefferson aveva sostituito alla parola subjects contenuta nella bozza di dichiarazione, la parola citizens, cittadini, anche se in alcune costituzioni, come quella del Massachussets, si continuerà a utilizzare l’antica parola, ma con un significato radicalmente nuovo.

Da Spinoza a Rousseau, tra antropologia e politica

Il sostantivo sujet/subject, utilizzato sempre nel senso di subditus, aveva avuto un posto di tutto rilievo nella teoria politica e giuridica di Bodin e di Hobbes. Da Bodin i citoyens venivano fatti coincidere solo con i « sudditi liberi », i francs sujets, gli abitanti privilegiati delle città del regno, come sottolinea Rousseau nel Contratto sociale per meglio far risaltare la propria posizione. In Hobbes quella dei citizens-cives diventa una figura generale che coincide con l’insieme dei subjects-subditi, in quanto hanno ceduto al sovrano il potere di comandarli attraverso il pactum subiectionis. Tutti questi aspetti sono sviluppati organicamente da Burlamaqui nei suoi Principes du droit politique (1751), il quale chiarisce, come farà anche Rousseau, che « i sudditi (sujets) di uno Stato qualche volta sono chiamati cittadini (citoyens); taluni non fanno distinzione tra questi due termini, ma è meglio distinguerli » (I, 5, § 13). La distinzione per Burlamaqui (ma non per Rousseau) riflette la separazione fisica tra chi ha i diritti politici (i secondi) e chi non li ha (i primi).

Proprio rispetto a tale questione la figura del suddito (subditus) aveva assunto una posizione centrale e critica nella teoria di Spinoza, in particolare nel suo Tractatus politicus, e con qualche analogia con la figura più generale del subiectus. Qui egli definisce i subditi per via di contrasto con i cives: « chiamiamo cittadini gli uomini in quanto godono per diritto civile di tutti i vantaggi della comunità politica (civitas), e sudditi in quanto devono obbedire alle istituzioni e alle leggi della comunità politica » (III, 1). Questi due insiemi rimangono largamente non coincidenti nelle monarchie e nelle aristocrazie, perché in esse i sudditi, a differenza dei cittadini, sono esclusi dalla politica, mentre invece i due insiemi tendono a coincidere nelle democrazie. Questo è l’obiettivo politico di Spinoza. Tuttavia, perché ciò possa avvenire, rimangono da superare almeno due grossi ostacoli interni alla teoria. In primo luogo, la legge da lui è considerata un comando. Ma, se la sua essenza è questa, che senso ha comandare a se stessi? Secondo, circa la metà dei sudditi è costituita da donne, che per loro natura sono considerate incapaci di partecipare all’attività politica (XI, 4). Perciò sono loro i sudditi su cui si concentrano i comandi. Infine, se si vuole che la democrazia arrivi a soddisfare ai propri principi, occorrerebbe che essa non sia fondata sulla natura. Tale esigenza però entra in contraddizione proprio con la premessa generale da cui parte il Trattato politico, quella delle basi naturali della politica. La riflessione e l’esistenza stessa di Spinoza si arrestano di fronte a questo ostacolo: reliqua desiderantur, « il resto manca », scrivono gli editori alla fine dell’opera postuma incompiuta.

Il compito di esaudire questi desideri sarà Rousseau a assumerselo, ma su basi assai diverse. Egli ripartirà da un altro Spinoza, quello dell’Ethica, e perciò la sede pertinente della materia sarà l’Emilio,in particolare il quarto libro. Nella sua seconda parte esso contiene la « Professione di fede del vicario sovoiardo »,articolatain tre dogmi. Al centro di questi c’è una critica, anche terminologica, della nozione unitaria di soggetto che si era andata sviluppando a partire da Descartes. Nozione unitaria senza però termini unitari. Descartes evita accuratamente di utilizzare il sostantivo « soggetto »(sujet). Sarà Spinoza a farlo, ma molto prudentemente. La critica di Rousseau è diretta in particolare contro due opposte versioni riduttive. Come la mia volontà agisca sul mio corpo e come le sensazioni abbiano effetti sul mio animo, sono due operazioni – sottolinea il vicario – che a me, soggetto logico della riflessione, risultano ugualmente incomprensibili. E tuttavia – aggiunge –, a partire proprio da questa comune incomprensibilità, una prima versione riduzionista ipotizza che chi presiede alle due differenti operazioni siano non due soggetti diversi, ma un unico e medesimo « soggetto » (sujet) (OC, IV, 576). Il riferimento è alla celebre seconda proposizione della terza parte dell’Etica di Spinoza: »E dunque vorrei sapere se nella mente ci sono per caso due generi di decisioni, un genere di decisioni fantastiche e un genere di decisioni libere » (atque adeo pervelim scire, an in Mente duo decretorum genera dentur, Phantasticorum unum, & Liberorum alterum?),laddove invece bisogna riconoscere che si tratta di « una sola e identica cosa » (una, eademque res). Rousseau considera abusiva una simile identificazione, che impedisce di cogliere la radicale novità rappresentata dall’idea di un soggetto autonomo, diverso dal soggetto delle sensazioni. Ma non si limita a questo: egli respinge anche una seconda versione riduttiva del soggetto che ne fa solo un soggetto della conoscenza: secondo tale versione l’intelligenza è separata dalla volontà, e dove c’è l’una non c’è l’altra. Rousseau invece ritiene che il soggetto della conoscenza, l’unico che interessi Descartes e la sua scuola, lungi dall’essere puramente passivo, si estenda fino a identificarsi col soggetto della volontà: egli infatti sa che in tale processo interno al soggetto, « la causa determinante è in lui stesso » (OC, IV, 586). Rousseau sembra qui sviluppare un’intuizione ancora di Spinoza, che tra i primi, nella sua critica a Descartes, aveva fatto cenno al « soggetto (subiectus) volente o nolente », ma solo per limitarne la rilevanza al cambiamento interno al soggetto stesso (in quanto avvenga « electione ipsius subjecti ») e negarla rispetto a quello esterno [Cogitata Metaphysica, II, IV]. E’ invece proprio quel cambiamento che abbia effetti, per electione ipsius subjecti, sul mondo esterno, ciò che Rousseau pone al centro dell’attenzione.

Sofia, Emilio e i principi dei diritti

Siamo arrivati così al soggetto del quinto libro dell’Emilio, anzi ai « soggetti », perché a Emilio qui viene a aggiungersi Sofia che egli ama, e perché nell’evoluzione di questo loro rapporto è racchiusa, etimologicamente, tutta la filosofia di Rousseau. In apertura della prima parte di questo quinto libro, intitolata « Sofia o la donna », il rapporto tra i sessi viene prospettato da un punto di vista « naturale »: la natura ha fatto l’uomo e la donna diversi per quanto riguarda il sesso, uguali in tutto il resto (Oeuvres complètes, v.V, p. 693). Solo che la presenza del sesso è debordante, cerca di invadere i campi che non gli sono propri. Il rapporto tra i sessi trascolora naturalmente in uno stato di subordinazione della donna, con la stessa naturalezza e aria di indipendenza che appariva nei rapporti di produzione dell’azienda di Clarens. In entrambi i casi, sia per la donna che per il personale dipendente dei Wolmar, Rousseau – ricordiamolo – utilizza la stessa ricetta, con una coppia di termini identici: « costrizione (contrainte) e soggezione (gêne) » (V, 709).

« Mon sujet m’entraînant malgré moi… »:le prime righe della prefazione dell’Emilio (OC, p. 241) preludono all’ultima parte dell’opera, là dove, come in Spinoza al momento in cui si interrompe il suo Trattato politico, viene prepotentemente in primo piano la contraddizione del rapporto civile tra i sessicon l’ordine politico. L’uguaglianza naturale tra uomo e donna esclude ogni ingerenza esterna legata a appartenenze di religione, di ceto o di famiglia, sia al momento delle nozze, sia nel prosieguo del rapporto matrimoniale. Ma tutti questi legami, così ben radicati nelle società d’ancien régime, costituiscono un tale reticolo di disuguaglianze con pretese di naturalità da essere un ostacolo insormontabile per l’unione di Emilio e Sofia, così come lo erano stati per Julie e per Saint-Preux nella Nouvelle Héloïse, e ancora prima per Jean-Jacques stesso e per Thèrèse nella vita reale. Secondo Rousseau l’unica soluzione sta nell’istituzione del matrimonio civile, che presuppone a sua volta cambiamenti ben più generali. Quando le forze che si oppongono alle disuguaglianze naturali riescono, con la loro resistenza, a prendere il sopravvento su tutto questo reticolo (CS, I, 6), allora diventa possibile la drastica sostituzione di « un’uguaglianza morale e legittima a quanto di disuguaglianza fisica la natura aveva potuto mettere tra gli uomini », a cominciare dalla disuguaglianza tra uomini e donne (CS, I, 9).

Su questa chiara indicazione si apre e si chiude il Contratto sociale, e è proprio su tale prospettiva che sfocia il percorso formativo di Sofia e di Emilio: « le buone istituzioni sociali sono quelle che meglio sanno snaturare l’uomo » fin dai rapporti tra i sessi (Emile, OC, p. 249). Ecco perché nel quinto libro dell’Emilio, subito dopo la sezione « Sofia o la donna », Rousseau inserisce quella intitolata « Dei viaggi » (p. 826), contenente il riassunto del Contratto sociale. I rivoluzionari francesi non si inganneranno su questo punto, quando il giorno della fine della monarchia di diritto divino e dell’apertura della Convenzione (22 settembre 1792) dedicheranno la prima legge repubblicana proprio all’istituzione del matrimonio civile. Ma sul passo successivo, la consequenzialità dell’applicazione del principio di uguaglianza ai rapporti politici tra uomini e donne, e ai rapporti tra questi ultimi e il governo, non saranno in nessun modo disposti a seguire il Ginevrino.

Per capire meglio la natura della contraddizione da cui è investito il suo rapporto con Sofia, Emilio si metterà in viaggio per l’Europa, con in mano i principi dei diritti. Cercherà un paese che non solo li riconosca legittimati entrambi a formare liberamente una nuova famiglia, ma che assicuri nel tempo un rapporto paritario tra di loro, e li tenga al riparo da vessazioni politiche, economiche e di ogni altro tipo, che potrebbero in ogni momento presentarsi. Ciò implica la possibilità di scegliere la propria residenza in tale paese e la sua traduzione in diritti politici. E’ il tema del Contratto sociale e Emilio, a ogni tappa del suo viaggio, commisurerà le leggi vigenti in ciascun paese esattamente ai principi di questi diritti politici. In questo contesto non appare secondario il fatto che Emilio, in preparazione di tale analisi di diritti comparati, come soggetto della conoscenza, e nella prospettiva della scelta di un paese, come soggetto autonomo, abbia dovuto apprendere « due o tre lingue » straniere, oltre a quella materna, non solo per comunicare con gli altri, ma anche per capire come i principi del diritto politico si traducano nella lingua del posto. Lingue europee diverse dal francese costringerebbero tra l’altro a togliere l’ambiguità contenuta nella parola sujet e a prendere posizione sull’alternativa sudditi-soggetti. Il fatto è che se Emilio riuscisse a trovare un paese in cui i principi non fossero solo principi dei diritti politici, ma esistessero anche come principi del diritto vigente, ciò imporrebbe la trasformazione di Emilio e Sofia in sujets, dato che questa sarebbe la veste normale in cui si troverebbero sottoposti alle leggi del paese che hanno scelto e in cui potrebbero esercitare i propri diritti. Poi, nel momento in cui esercitassero il diritto di votare sulle leggi, e solo in quel momento, essi lo farebbero in veste di citoyens, come componenti del sovrano del loro nuovo paese.

Ancora Rousseau e Spinoza

Siamo dunque tornati alla coppia di Spinoza cives-subditi ? Certo, come in Spinoza, il contratto russoiano consiste prima di tutto in una ridefinizione dei termini chiave di citoyen e sujet, una ridefinizione che ricalca passo passo quella del predecessore: « Per quel che riguarda gli associati (…) si chiamano citoyens in quanto partecipanti all’autorità sovrana, e sujets in quanto sottoposti alle leggi dello Stato » (I, 6). A differenza di Spinoza però, Rousseau, come abbiamo visto, include le donne non solo nell’insieme dei sujets, ma anche in quello dei citoyens: e questo per il fatto che, a causa dell' »uguaglianza morale e legittima » instaurata dal patto, l’insieme dei « cittadini » viene a coincidere per Rousseau con quello dei « residenti » maggiorenni. Inoltre, a differenza di Spinoza, per il quale i cives « godono di tutti i vantaggi », i citoyens di Rousseau godono solo della parte dei diritti politici che abbiamo già visto, ossia quella che riguarda il voto sulle leggi. I restanti diritti, come vedremo subito, spettano all’altra faccia di loro stessi, quella più quotidiana di sujets che si occupano di elezioni.

Che la riflessione politica del Contratto sociale parta dal punto in cui Spinoza l’aveva lasciata, è confermato anche su un altro terreno, quello delle forme di governo. La democrazia, che per Spinoza era l’ultima forma politica presa in esame, in Rousseau diventa la prima (III, 4). E per una ragione molto semplice. Per lui la democrazia non solo è la prima forma di governo sulla base del contratto sociale, ma è anche l’unica forma possibile di esercizio della sovranità. In tale modello la sovranità democratica non ammette interruzioni o variazioni, pena la morte del corpo politico. Così anche il governo democratico, il governo di tutti i sujets, è la necessaria premessa per ogni altra forma di governo e la sua forma di governo si ripresenta ogni volta che il popolo vota. Ma si tratta di una forma transitoria, che subito dopo le elezioni deve lasciare il posto a un numero più ristretto di sujets, ai candidati appena eletti sulla base della legge elettorale, che entrano a far parte del nuovo governo (III, 17).

In tale prospettiva appare decisivo il carattere democratico della legge che regola le assemblee e i comizi. L’esercizio dei diritti di « dare il proprio parere, di proporre, di dividere, di discutere » (IV, 1), previsti da quella legge, appartiene a tutti i citoyens come membri del sovrano e a tutti i sujets in veste di componenti del governo democratico. Tale elenco di diritti si presenta ordinato secondo il maggiore o minore carattere vincolante di ciascuno di essi, ordine che è inverso rispetto a quello logico-temporale, stando al quale al diritto alla più ampia discussione politica seguono il diritto di distinguere tra la competenza dei cittadini e dei sujets-soggetti politici, il diritto di proporre rispettivamente emendamenti e candidature, e il diritto di prendere posizione (opiner) in merito a ciascuna di tali questioni. Solo alla fine interviene, a coronamento del processo deliberativo o di governo democratico, il diritto di esprimere il voto. Rousseau considera come « la più importante di tutte » proprio quella specie di leggi che attribuisce ai citoyens e ai sujets il diritto di far sentire la propria voce (opinion), con l’obbligo per il legislatore di tenerne conto sempre, in modo da dare a quel diritto la forza di una consuetudine democratica. Anzi, è un simile diritto, che « sostituisce insensibilmente la forza dell’abitudine a quella dell’autorità », a costituire con tutto il suo peso crescente l' »incrollabile chiave di volta », il punto più alto, di tutta l’architettura democratica (II, 12).

Soggetti contro sudditi

Arrivato a questo punto, Rousseau introduce un fattore di catastrofe, quando precisa, a proposito di tali quattro diritti, che si tratta di « diritti che il governo ha sempre cura di lasciare ai propri membri ». Qui egli prospetta chiaramente una delle vie principali attraverso cui il governo usurpa oltre alla funzione legislativa, che è l’unica che può disporre nel campo diritti, anche i diritti politici stessi, che per definizione appartengono a tutti i cittadini e a tutti i sujets-soggetti politici, e tende così a degenerare. Il riferimento non è certo al governo democratico dei comizi elettorali, che è nell’impossibilità di attuare tali restrizioni, ma ai governi a cui esso deve lasciare il posto dopo le elezioni. Questi governi hanno molti modi per farlo, in apparenza senza violare la legge sulle assemblee, ma semplicemente approfittando del fatto che la definizione di importanti aspetti organizzativi viene lasciata alla loro discrezionalità. Ciò non potrebbe accadere senza la complicità del legislatore, la cui importante funzione Gramsci interpreta come quella del moderno partito politico. Con un tale comportamento la sua grande âme abdicherebbe alla propria caratteristica essenziale – ossia l’assoluta estraneità alle manovre di governo e ai conflitti di interessi – e infine alla propria trasparenza.

Ma proprio nel momento in cui prospetta questo punto decisivo, Rousseau, per evitare l’accusa di lesa maestà, chiude bruscamente il discorso,: « su tale importante materia », spiega, « non posso dire tutto ». E rimanda a un ulteriore trattato su cui altri dovranno meditare. Nell’attesa, egli si limita a fare qualche allusione ai possibili rimedi. La forma di governo democratica, quella operante al momento delle elezioni, è anche quella « che richiede più vigilanza e coraggio per essere mantenuta ». Ed è qui che i sujets, anche se possono talvolta cantare le lodi della « tranquillità pubblica » (III, 9), devono sempre opporsi ai soprusi del governo, dato che « un po’ d’agitazione tiene alto il morale, e quel che fa veramente prosperare la specie è più la libertà che la pace », una pace apparente, dietro la quale c’è solo il deserto (III, 9 n.). Affermazioni che riecheggiano quelle simili di Spinoza: « la comunità politica in cui la pace dipende dall’inerzia dei sudditi (…) può essere definita un deserto piuttosto che una comunità politica » (TP, V, 4).

Perciò sujet ha nel Contrat socialdue significati politici opposti: da una parte, in quanto viene riferito alle società d’Ancien régime, ha il senso usuale di « sudditi » assoggettati al sovrano e senza diritti politici; dall’altra, in quanto riferito alla società uscita dal contratto sociale, indica i soggetti di diritti, in quanto soggetti non al sovrano, per quanto popolare esso sia, né a se stessi come cittadini, ma soggetti solo alla legge, e solo in quanto questa sia espressione della volontà generale. In particolare sujet indica dei soggetti la cui azione, al momento delle elezioni, è produttiva di conseguenze politiche. Questi due significati sono strettamente collegati tra di loro attraverso un processo di metamorfosi. Sul finire dell’ultimo capitolo del Saggio sull’origine delle lingue, che porta il titolo « Rapporto delle lingue con i governi », Rousseau fa questa affermazione rivelatrice: « Il ne faut assembler personne (…), au contraire,il faut tenir les sujets épars : c’est la première maxime de la politique moderne », che proporrei di tradurre così: « Non c’è bisogno di riunire nessuno (…), al contrario, i potenziali soggetti, i sudditi, bisogna tenerli sparsi: questa è la prima massima della politica moderna ». Per un verso è chiaro che sujets qui sta per « sudditi », ma Rousseau premette che si tratta dell' »ultima forma » delle società d’Ancien régime, e suggerisce che quando i sujets non fossero più sparsi potrebbero cambiare il rapporto delle lingue con i governi. Allora assumerebbero la veste di soggetti politici che hanno il diritto di parola e fanno sentire la propria voce e il loro voto – due cose diverse, voce e voto, legate anche loro da un processo di trasformazione, che il francese, e Rousseau, esprimono di nuovo con un termine solo: voix. Coloro che non hanno voce in capitolo sono sudditi con una larva di diritto di voto, ma non sono né cittadini né soggetti. Cittadini e soggetti, a forza di vantare « la tranquillità pubblica », possono regredire di fatto, per « la forza delle cose », ossia, per azioni di forza dei governi, alla condizione di sudditi, sudditi di tali governi. Ma a quel punto il patto sociale è rotto. Emilio e Sofia dovranno allora riprendere la loro ricerca di un paese dove non si ritrovino sudditi, ma soggetti di diritti politici e quindi cittadini.

La censura acuminata

Nei punti chiave delle sue opere maggiori Rousseau raccomanda di porre mente al fatto che a una stessa parola egli attribuisce significati diversi. Egli sa giocare con i doppi sensi, e sa bene che questa è un’arma efficace, ma evidentemente a doppio taglio. Proprio coloro che dovrebbero essere i più attenti alla sua messa in guardia, quei traduttori chiamati a raccogliere la sfida e rilanciarla, potrebbero fingere di ignorare le responsabilità a cui sono messi di fronte e nascondersi dietro l’ambiguità lessicale di sostantivi come sujet e voix. Sfida che invece potrebbe essere raccolta da quella censura occhiuta che l’ambiguità si prefiggeva di aggirare. Allora, paradossalmente, sarebbero gli irrigidimenti ufficiali a risvegliare tra il grande pubblico la consapevolezza dei soggetti e del loro carattere sovversivo. Esattamente questo è ciò che si verificò con i teologi dell’università di Parigi nella loro ampia e dettagliata Censura della fine del 1762. Essi, a differenza di quanto avvenuto nelle condanne dell’Emile prodotte senza indugi da parte del parlamento e dell’arcivescovo di Parigi, ebbero modo di approfondire i diversi aspetti della questione, in modo da focalizzare l’attenzione sul rapporto che la religione ha col diritto e la politica, piuttosto che sulla persona del Ginevrino e sulla sua figura morale. Questi a sua volta coglierà subito tale differenza e la necessità, anzi il vantaggio politico di spostare il baricentro dell’interesse sul terreno autobiografico e sulla propria innocenza da difendere.

L’acume polemico dei teologi parigini si appuntava sul fatto che per Rousseau « le parole sujet e sovrano sono correlazioni identiche la cui idea si riunisce sotto la sola parola di Cittadino » (III, 13). E quindi constatavano che è dal sujet, attraverso la sua trasformazione in cittadino, che proviene il primo impulso al processo di partecipazione all’attività del sovrano: « Rousseau veut que chaque sujet participe (…) au pouvoir souverain » (p. 198). Ci si sarebbe aspettato che nella versione latina, che i teologi avevano posto a fronte del loro testo francese, sujet venisse tradotto – come è sempre, prima e dopo, avvenuto – con subditus. Invece, al posto di questo, troviamo utilizzato il sostantivo subjectus, con un riferimento esplicito alle Lettres pastorales di Jurieu (1686-1689). Infatti nella lettera XVI questi aveva scritto: « E’ la sovranità del popolo che è esercitata dal sovrano. Egli ne è il braccio e la testa, il popolo è il corpo. E l’esercizio della sovranità da parte di uno solo non impedisce che la sovranità sia nel popolo come nella sua fonte, e perfino come nel suo primo soggetto » (dans son premier sujet). E nel punto in cui i teologi della facoltà parigina riportano polemicamente questo passo, traducono in latino le ultime parole con « primo suo subjecto », come se Jurieu avesse anticipato Rousseau, pur avvertendo che con le sue tesi il primo era andato « molto meno lontano » del secondo (p. 190). Secondo loro, mentre Jurieu sostiene che il popolo, originariamente soggetto della sovranità, poi se ne spoglia e diventa suddito del sovrano, Rousseau, al contrario, fa degli ex sudditi dei soggetti che partecipano sempre, all’esercizio della sovranità e dei diritti che ne derivano, senza poter mai privarsene. Ai teologi non sfugge la connessione con la tesi del vicario savoiardo, secondo cui il soggetto autonomo non può essere ridotto al soggetto delle sensazioni. Anzi, concentrano la loro condanna proprio su questo punto.

Tradurre i sujets

Ma questo sostantivo sujet che i teologi interpretano come subjectus,in che modo è stato interpretato nelle altre lingue moderne, in particolare in italiano? Come sia andata con i rivoluzionari francesi e come abbiano tradotto in pratica i termini originali del Ginevrino, è questione a cui ho già fatto cenno, anche se troppo rapidamente. Ma quanto ai traduttori in senso stretto, volti a trasporre e a diffondere la lingua, il verbo di Rousseau – in particolare del Rousseau politico – in altre lingue, è certo che nella loro quasi totalità hanno adottato di fatto, e infine teorizzato, un « principio di rigida equivalenza » che funziona come principio di autocensura e come sbarramento per interpretazioni innovative. Secondo tale principio, a ogni ricorrenza di un termine originale deve corrispondere sempre un medesimo termine nella traduzione. Ma nel caso del sostantivo sujet questo principio si scontra, nonostante tutti gli avvertimenti di Rousseau in proposito, con una meditata polisemia e con un processo di trasformazione dei significati, che i contesti portano poi alle loro ultime conseguenze.

Nel passo della « Professione di fede del vicario savoiardo » che tratta del doppio sujet la traduzione sembra obbligata. E infatti fin dall’inizio quasi sempre gli interpreti lo hanno reso con « soggetto » in italiano, con subject in inglese, con Subjekt in tedesco, con sujeto in spagnolo. Ma non mancano eccentricità significative: per esempio in italiano recentemente è stato tradotto con « motivo » (Valensise, 2009), mentre un secolo fa in inglese con case (« caso »: Foxley, 1911), e in russo con substrat (« sostrato »: Pervov, 1911 e 1981). Evidentemente questi interpreti, consapevoli dell’uso storicamente abnorme di « soggetto » in una tale accezione, preferiscono, contrariamente ai teologi, ripiegare su soluzioni più indolori.

Ma nelle versioni del Contrat social come èstato possibile conciliare il « principio di rigida equivalenza » con la polisemia di sujet nei suoi usi politici? Le prime traduzioni italiane del Contrat social, risalenti al triennio rivoluzionario della fine del XVIII secolo, hanno svolto un ruolo esemplare per l’affermazione di tale principio su scala internazionale. La prima traduzione in assoluto, quella di Giovanni Mennini del 1796, pubblicata originariamente a Parigi e introdotta in Italia con le truppe di Bonaparte, traduce sujet, in tutte le sue occorrenze – riferite vuoi al « tema » di cui si parla, vuoi al « suddito » d’Ancien régime, vuoi al componente dello Stato nascente dal contratto – sempre con « soggetto ». Così faranno anche, l’anno successivo, le due traduzioni italiane del Discours sur l’inégalité (ma qui l’unico referente sono le società ingiuste). Poteva essere l’accezione arcaica, già allora obsoleta, del sostantivo italiano « soggetto », tratto dal corrispondente aggettivo, che tuttavia aveva, almeno potenzialmente, il merito di porre il problema del legame tra queste tre accezioni di « soggetto » e le due altre presenti nella coeva traduzione della « Professione di fede » nell’Emilio. Tuttavia, già nel 1797, a partire dalle due successive versioni italiane del Contrat social, avviene un brusco rovesciamento: sujet nel primo significato viene tradotto con « argomento » e negli altri due significati politici sempre con « suddito ». Questa è la tendenza interpretativa che da allora si è affermata in modo assolutamente esclusivo, e non solo nelle circa trenta traduzioni italiane, ma anche nel resto d’Europa e del mondo (salvo l’adozione, in particolare in Italia tra il 1850 e il 1920, di un modello di compromesso che traduceva sujet nel primo significato ancora con « soggetto », e negli altri due con « suddito »).

In sintesi, la traduzione di sujets sempre con « sudditi » nel Contratto sociale ha dato e continua a dar luogo a diversi paradossi:

1) proprio nel momento storico in cui il linguaggio legislativo abbandonava l’uso del termine « suddito », i traduttori stabilizzavano questo stesso termine all’interno del Contratto sociale;

2) se è vero che, secondo Rousseau, al momento delle elezioni i sujets hanno, oltre al diritto di votare, anche quelli di essere consultati preliminarmente in modo significativo e di agire in veste di componenti del governo democratico, come potrebbero essere denominati « sudditi », visto che tale termine esclude, se non il voto, sicuramente tutti gli altri diritti politici?

3) I sudditi, per definizione, sono sempre sudditi di qualcuno: come potrebbero nel Contratto sociale essere soggetti solo alla legge e contemporaneamente soggetti anche ai comandi del sovrano?

4) Per il fatto di aver posto la questione dell’autonomia dei sujets rispetto al governo, Rousseau andrebbe considerato come il primo teorico della soggettività politica: invece viene presentato come l’ultimo sostenitore della sudditanza.

C’è una stretta correlazione tra i diversi modi di tradurre sujet e le differenti versioni dell’altro sostantivo voix nel Contratto sociale. La prima traduzione di Mennini rende quest’ultimo con « voce »; poi, nelle altre due versioni successive del 1797, c’è una graduale sostituzione di questo termine con « voto »; infine, subito dopo lo Statuto albertino, a partire dalle due traduzioni del 1850, « voto » diventa, attraverso una tradizione interpretativa che si è mantenuta fino a oggi, e non solo nelle versioni italiane, l’unico modo di rendere voix. Il calcul des voix (IV, 2) – calcolo razionale delle voci, dei pareri, la presa di parola che deve portare all’accordo degli interessi di tutti i soggetti (II, 3 n.) -viene trasformato surrettiziamente in « calcolo dei voti ». Eliminando le voci con cui si esprimono politicamente i soggetti, e quindi togliendo di mezzo i soggetti stessi, il diritto politico diventa un mero simulacro che nasconde l’abolizione d fatto dei diritti politici.

Raramente il compito del traduttore è apparso di natura così profondamente politica come nel Contratto sociale. E dopo due secoli e mezzo, potrebbe ancora non aver cessato di produrre i suoi effetti.